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LA “CURTE DE CENTO” (Nucleo embrionale della comunità centopievese)

DiVittorio Toffanetti

Apr 29, 2024

Il documento più antico che attesta l’esistenza del comune rurale centopievese, come già sappiamo, è la concessione enfiteutica del Vescovo di Bologna dell’11 aprile 1185, alla quale i centopievesi partecipano attraverso propri rappresentanti eletti democraticamente  e risultano quindi già organizzati in un ente amministrativo dotato di una propria personalità giuridica e legittimazione politica.

 Ma la comunità di rustici centopievesi che aveva ottenuto dal Vescovo quella concessione, ovviamente non era nata quel giorno e non era nata dal nulla.

 Sicché, prima di impegnarci a scriverne la storia a partire da quell’atto e da quella data, vogliamo volgerci indietro e indagare a fondo da dove essa proveniva, in quale epoca si era insediata ai margini delle valli e delle boscaglie del Pagus Perseceta; se in epoca antica, tardo antica, o altomedievale, se in forma sparsa e puntiforme, o  raccolta in un centro demico stabile; come era composta; se aveva una sua originaria e diversa organizzazione e quale; se dipendeva all’origine da un altro dominus loci diverso dal Vescovo di Bologna e quale.

 Pur sapendo che, nella nostra ricerca non potremo avvalerci di documenti altrettanto probanti ed inequivocabili quale quello dell’a. 1185, ma non per questo venendo meno all’ assoluto rigore scientifico cui deve uniformarsi una ricerca storica seria.

 Prima però è necessario sgomberare il campo dalle tante fantasiose e ingenue tradizioni popolari centopievesi circa l’origine e la derivazione del toponimo “Cento” quali, ad esempio, le “cento capanne di pescatori”, o le “cento ceste di gamberi”, o le “cento miglia” di distanza da Rimini.

 Va detto anzitutto che si tratta di un toponimo largamente in uso nell’altomedioevo in area bizantina ed esarcale, oltre che nel nostro Pagus Perseceta, dove Luigi Breventani, nella scrupolosa ricerca archivistica effettuata per le sue “Deduzioni storiche sull’origine vera delle Decime di Cento”, ebbe ad individuarne ben sei non attribuibili alla nostra Cento e precisamente: Un Cento di S.Agata bolognese, un Cento di Calcara nei pressi di Crespellano, un Cento di Palata, un Cento di Baggiovara a sud di Modena, un Cento di Budrio e un Cento di Minerbio.

 Secondo l’insigne storico Mons. Antonio Samaritani non è da individuare con certezza nel centopievese nessuno dei tre “fundo Cento” della falsa donazione di Orso chierico dell’a. 752 al Monastero di Nonantola; il “fundo” e il “casale Cento” della donazione del Duca Giovanni e di quella del figlio monaco Orso dell’’a. 789 e neppure il “casale Cento” delle false donazioni (sempre al monastero nonantolano). da  parte dei Duchi longobardi Mechi e Rotari degli a. 799 e 800

  Ha invece buone probabilità di corrispondere al nostro Cento, sempre secondo il Samaritani, il “Burgo Centi, territorii bononiensis iudiciaria mutinensis” del 6 maggio 1008 rinvenuto tra le carte dell’Abbazia di Pomposa, in quanto né il Cento di Baggiovara, né quelli di Calcara e di Budrio possono abbinare le due qualifiche, a differenza del nostro.

 Il toponimo “Cento” altro non era che una misura agrimensoria per la misurazione dei campi e la ripartizione fondiaria medievale (come quadrigenta, quingenta, ducenta, trecenta, nongenta e appunto centa ecc) e, sempre secondo l’autorevole Mons Samaritani, non è da ritenersi una diretta superstite espressione di centuriazione romana là dove, per difficoltà naturali, non era possibile procedere alla divisione degli iugeri.    

 Nella copiosa storiografia centopievese, a partire dal settecentesco “Origine di Cento e sua Pieve” del canonico Gioanfrancesco Erri, nel tentativo di riconoscere alla nostra comunità un’origine la più antica possibile, ricorre frequentemente la rivendicazione di una diretta derivazione romana risalente addirittura al II secolo a.C., all’epoca cioè della colonizzazione e centuriazione romana dell’agro bolognese sottratto dai romani ai Galli Boi.

 Se non che, considerata la fortissima e progressiva depressione altimetrica delle terre del Pagus Perseceta, che dalla via Emilia vanno a nord verso il ferrarese e l’assetto idrico eccezionalmente critico a cui dette terre sono state condannate per lunghi secoli dalle frequentissime esondazioni del Panaro (a ovest), del Reno e del Samoggia (ad est), oltre che dalle disastrose rotte del Po (a nord), concordiamo con Mons. Samaritani nel dire che queste supposizioni della esistenza di un vicus o di una villa di antichità romana nel centopievese appaiono assai fantasiose e assolutamente improbabili, oltre che prive di ogni serio riscontro documentale e archeologico.

 Per poter ipotizzare con un minimo di credibilità e fondamento storico, il formarsi del primo insediamento stabile di rustici tra le valli, le paludi e le boscaglie del  centopievese, rispetto all’esimio canonico Erri occorre fare un salto di secoli dalla caduta dell’impero romano di occidente alle invasioni barbariche e attendere l’arrivo in Italia dei Longobardi e la fondazione del Monastero benedettino di San Silvestro di Nonantola (a metà del secolo VIII), studiando attentamente i numerosi documenti altomedievali del suo preziosissimo Archivio Storico.

 Altrettanto preziosi per la nostra storia sono i documenti conservati nell’Archivio Storico dell’ Arcidiocesi di Bologna.

 Sia quelli relativi alla fondazione delle più antiche chiese pievane nel territorio della Diocesi (sec. X-XI), sia quelli riguardanti le concessioni enfiteutiche a favore delle comunità rurali del Pagus, grazie alle quali il Vescovo di Bologna, a partire dal sec. XII, estenderà progressivamente la sua signoria sulle nostre terre a scapito di quella dell’Abate nonantolano. 

 Fondato dall’Abate Anselmo nella Selva di Zena, l’immensa foresta regia donatagli dal re longobardo Astolfo, il Monastero di Nonantola, grazie a successive donazioni da parte di re e duchi longobardi, grazie a concessioni territoriali e giurisdizionali da parte degli imperatori franchi e germanici, era andato rafforzando il suo potere temporale ed estendendo il suo dominio ben oltre i confini del Pagus Perseceta, sino ad assumere nel secolo IX i caratteri di una potente signoria feudale (Abate-Conte).

                                        (Abbazia di Nonantola bassorilievo dell’Abate-Conte)

La dominazione nonantolana nel Pagus, come già sappiamo, raggiunse la sua massima espansione nell’a. 1017, quando il Marchese Bonifacio di Canossa e sua moglie Richilda (i genitori della Contessa Matilde) fecero dono al Monastero della Corte di Trecentola e Ponte Duce (odierna Casumaro)

 Di certo, amministrando direttamente le numerose aziende fondiarie curtensi disseminate nel Pagus Perseceta, o affidandone la conduzione a propri vassalli (longobardi prima, carolingi, o canossiani poi), già in quei lontani anni dell’alto medioevo il potente cenobio nonantolano ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di prima bonifica e colonizzazione di queste terre incolte.

 Un processo sul quale però la pur copiosa documentazione altomedievale tratta dal suo Archivio Storico non consente di fare piena luce sulla nostra storia.

 In particolare in quei documenti non vi è traccia dell’esistenza di una azienda curtense nel centopievese, amministrata dal Monastero o da suoi vassalli oltre a quella di Trecentola e Ponte Duce di Casumaro, distinta da questa o da questa dipendente.

 Ci soccorre comunque un documento di fine sec.XII, tratto però dall’Archivio Storico della Arcidiocesi di Bologna.

 Si tratta precisamente della enfiteusi del 4 ottobre 1170, a noi già nota, con cui il Vescovo di Bologna concede ai persicetani lo sfruttamento collettivo del grande tenimento di Villa Gotica e Morafosca, dove come confine orientale di quelle terre si citano espressamente una Curte de Argele e una Curte de Cento!

 Visto che l’atto in esame precede di soli quindici anni quello dell’11 aprile 1185, a noi già noto, che  è considerato l’atto costitutivo del comune rurale di Cento e Pieve di Cento, dobbiamo supporre che il termine “Curte de Cento” dell’atto del 1170 non indichi l’esistenza di una corte fondiaria vescovile vera e propria e ancora attiva, ma che si sia usato impropriamente un termine ormai desueto, proprio dell’epoca curtense altomedievale, per indicare invece la circoscrizione di una già presente e attiva istituzione comunale centopievese.

 Lo stesso discorso vale anche per la “Curte de Cento” citata nell’atto dell’a.1209 con cui il Vescovo di Bologna Gerardo Riosti concede ai centopievesi il diritto di pescare nelle valli, a noi già noto.

 Tuttavia è del tutto plausibile che uno o più secoli addietro i rustici centopievesi, come quelli del vicino villaggio dove sorgerà l’attuale Castello d’Argile, appartenessero ad una corte altomedievale, magari ad una Curtis Regia originariamente longobarda o franca, come ipotizza l’autorevole storico centese Mons. Antonio Samaritani. Oppure ad una corte vescovile, staccatasi magari dal territorio della Curte de Massumatico, come suppone un’altra corrente di studi centesi.

In un’epoca, cioè, in cui il Vescovo bolognese era ancora a tutti gli effetti un signore feudale come l’Abate nonantolano; una autorità religiosa e civile insieme, salvo poi dover cedere mano a mano la propria signoria al potente Comune di Bologna, il quale secondo una felice espressione “gli tolse la spada e gli lasciò soltanto il pastorale.” 

 In quei tempi di transizione dall’alto al basso medioevo, le corti nelle quali il signore feudatario, laico o ecclesiastico, aveva concentrato e organizzato una folla crescente di rustici liberi, semiliberi, o servi, si frantumano quasi ovunque in una aggregazione di piccole unità poderali (massaricie), o di appezzamenti coltivati sparsi tra l’incolto del bosco e delle valli (peciae terrae) affidate a singoli agricoltori o a gruppi parentali.

 Al dissolvimento dell’unità amministrativa delle corti altomedievali corrisponde un processo di emancipazione e aggregazione delle popolazioni di rustici che rivendicano con crescente forza la loro identità di uomini liberi (aldii) e cercano di sottrarsi ai vincoli di servaggio e alle viete forme di sfruttamento (consuetudines pravae) del passato.

 Il fenomeno, di carattere generale, interessa anche le corti del Pagus Perseceta e Salto Piano, anticamente dipendenti dal Monastero di Nonantola e dalla Diocesi di Bologna.

 Le popolazioni rurali sparse sui fondi e nei casali delle corti, si andavano infatti  aggregando e organizzando in comunità, o libere associazioni giurate, dando luogo alla formazione dei primitivi villaggi attorno o nei pressi della preesistente chiesa pievana.

 Infatti, nella loro missione evangelizzatrice e di cristianizzazione delle popolazioni rurali, l’Abate nonantolano e il Vescovo bolognese suggellavano ogni significativa avanzata della colonizzazione del Pagus Perseceta e del Salto Piano con la fondazione di una chiesa pievana, al servizio pastorale delle comunità di rustici e, al tempo stesso, come simbolo della propria signoria feudale.

 Le pievi di S. Agata bolognese e di San Giovanni in Persiceto risalgono alla fine del sec.IX, ma la prima traccia documentale della esistenza dei rispettivi villaggi è solo degli inizi del sec.XI. Un atto dell’a. 1014 cita il “Castellare quod vocatum S. Agate”. E’ dell’a. 1025 la prima citazione di un “Locus S. Johannis in Perseceta”, dove il termine locus è l’equivalente del vicus romano. Più tarda (sec.XII) è la Pieve di San Giovanni del Secco, fondata dal Monastero di Nonantola.

 Delle pievi fondate dal Vescovo di Bologna nel Salto Piano la più antica è sicuramente la Pieve di San Vincenzo (di Galliera), che in un documento dell’a. 962 viene situata in Salto Piano, comitatu Modonense territorio Bolognensis et Ferrarensis. Seguono la Pieve di S. Martino in Gurgo e la Pieve di S. Pietro in Casale.(a. 972)

 Da ultima, su un dosso o una colmata prodotta anch’essa dalla millenaria attività alluvionale del Reno, sorge la Pieve di S. Maria Maggiore di Pieve Cento, di cui non si conosce esattamente l’anno di consacrazione, né se sia stata fondata dal Vescovo di Bologna o dal Monastero di Nonantola, ma che può farsi risalire tra la fine del sec. X e l’inizio del sec.XI, anche se la prima attestazione della sua esistenza compare solo  in un atto del 29 aprile 1207.

 Poiché la fondazione di una pieve può essere considerata come segno dell’esistenza di un popolamento di un certo rilievo, è in questa epoca di passaggio dall’alto al basso medioevo e in questo contesto economico, politico e sociale di transizione dall’epoca curtense a quella comunale, che può fondatamente farsi risalire il primo formarsi della comunità di rustici centopievesi, organizzati e comandati in una “Curte de Cento” canossiana  o vescovile, i quali sapranno riscattarsi dalla loro condizione servile e aggregarsi dando vita, a fine sec. XII, al libero comune rurale di Cento e Pieve di Cento.

 E, per concludere, ci piace intervenire in quella disputa campanilistica e ancora attuale sulla primogenitura tra Cento e Pieve di Cento, per affermare che la “Cento” antica è sorta a Pieve, attorno alla chiesa pievana di S. Maria Maggiore. Poi, a favorire lo spostamento graduale dei centesi verso la Cento attuale è stata l’ennesima deviazione da oriente ad occidente del corso del fiume Reno, che è senza dubbio il primo grande protagonista della nostra storia.