Origini del comune rurale di Cento e Pieve di Cento nel Pagus Perseceta
La storia delle origini di Cento e Pieve di Cento, al pari di quella parallela di San Giovanni in Persiceto, va opportunamente inquadrata in un contesto territoriale più ampio, rappresentato dall’area geografica a nord della via Emilia tra Bologna, Modena e Ferrara, delimitata a ovest dai fiumi Muzza e Panaro e a est dal Samoggia e dal Reno, comprendente, fra gli altri, anche i comuni di Nonantola, Sant’Agata, Crevalcore, Finale Emilia e Bondeno.
Si tratta di un’area omogenea che, sin dai tempi più antichi è stata interessata dagli stessi fenomeni idrogeologici, tanto che, pur risultando divisa amministrativamente tra le province di Modena, Bologna e Ferrara, essa appartiene oggi ad uno stesso bacino idrografico di competenza del Consorzio della Bonifica Renana.
Nella toponomastica dei documenti altomedievali conservati nell’Archivio storico dell’Abbazia di Nonantola, l’area geografica sopra individuata risulta appartenere ad un unico distretto territoriale denominato Pagus Perseceta, soggetto anticamente alla giurisdizione modenese e sul quale il Monastero benedettino esercitava la sua signoria, sia spirituale che temporale.
Ancora nel sec.X il Pagus si trova annesso al contado di Modena e Reggio ed entra così a far parte del dominio canossiano del Marchese Azzo Adalberto (antenato della Contessa Matilde), per investitura dell’imperatore Ottone I dell’a. 961
Attraverso le terre incolte del Pagus passava l’incerto e controverso confine tra Bologna e Modena; quello ecclesiastico tra le due Diocesi e quello civile tra i due Contadi (iudiciaria-comitatus)
L’espandersi verso est del dominio del Monastero di Nonantola aveva comportato una forte penetrazione della giurisdizione modenese, ai danni di quella bolognese.
Anzi, tra il secolo X-XIil confine modenese si era spinto oltre il Samoggia e il Reno sino a ricomprendere non soltanto l’intero Pagus Perseceta, ma anche molte località del vicino distretto territoriale del Salto Piano, le quali vengono dette in territorio bononiense judiciaria mutinense, tra cui il centopievese.
La dominazione nonantolana nel Pagus Perseceta raggiunse la sua massima espansione nell’a. 1017, quando il Marchese Bonifacio di Canossa e sua moglie Richilda (i genitori della Contessa Matilde) fecero dono al Monastero della Corte di Trecentola e Ponte Duce (odierna Casumaro).
Questa era soltanto l’ultima delle numerose corti del Pagus Perseceta dipendenti dal Monastero di Nonantola in epoca alto medievale (sec. VIII- XI), tra cui la Corte di Susiatico (odierna Persiceto), la Corte di Cocciano (odierna Crevalcore), la Corte del Secco e la Corte Sabiniana (odierne Palata e Galeazza Pepoli e Bevilacqua)
Il Monastero di Nonantola, nei primissimi tempi dalla fondazione (sec. VIII-IX), amministrava direttamente queste corti del Pagus, affidandone la conduzione ai propri fiduciari di origine arimannica (guerrieri longobardi), sotto il cui comando gruppi di rustici in condizione servile o semilibera venivano impegnati nelle attività proprie di una economia ancora squisitamente silvo-pastorale, quali l’allevamento allo stato brado di porci e ovini, la raccolta di legname da costruzione, di legna da ardere e dei frutti spontanei del bosco, la caccia, la pesca e l’allevamento di gamberi.
Alla scomparsa della Contessa Matilde nell’a.1115 il dominio canossiano passò in eredità alla Chiesa di Roma e da questa, per la parte di beni situati nel territorio della Diocesi, al Vescovo di Bologna.
E’ da questo momento che il Vescovo bolognese cominciò ad interessarsi alle terre del Pagus Perseceta, ancora prevalentemente incolte, situate oltre il Reno e il Samoggia ai confini della Diocesi e il nostro territorio divenne così oggetto di una contesa tra le due autorità ecclesiastiche, impegnate ad assoggettare alla propria giurisdizione temporale e spirituale le comunità di rustici insediate ai suoi margini.
Comunità di rustici che proprio allora, riscattandosi dalla condizione servile o semilibera dell’epoca curtense, si andavano organizzando con proprie strutture amministrative e rappresentative in veri e propri comuni rurali.
Sicuramente più tarda, rispetto a S. Giovanni in Persiceto, Sant’Agata Bolognese e Crevalcore, è stata la formazione di un centro demico nel territorio centopievese, a causa di una maggiore depressione e peggiore condizione dei luoghi, per un assetto idrogeologico mantenuto estremamente critico dalle frequenti e devastanti esondazioni del Reno e del Samoggia.
E’da escludere che ad esso si riferiscano il Fundum Centi e il Casale Cento che compaiono in documenti altomedievali del Monastero di Nonantola, localizzabili piuttosto nel territorio di Sant’Agata.
Non è identificabile con certezza con il primo insediamento centopievese neppure quel Burgus Centi che compare in un documento dell’Abbazia di Pomposa dell’a. 1008.
Recenti studi hanno individuato il primo sicuro riferimento documentale all’esistenza di un centro demico stabile in territorio centopievese, nella concessione enfiteutica dell’11 aprile 1185, con la quale il Vescovo di Bologna Giovanni riconosce ai centopievesi il possesso e lo sfruttamento collettivo delle terre incolte (valli e boscaglie) a ponente del Reno, confinanti con quelle possedute dai persicetani.
Concessione alla quale i centopievesi partecipano attraverso propri rappresentanti elettivi e da cui traspare quindi l’esistenza non più di una semplice universitas hominum, madi una vera e propria istituzione politico-amministrativa.
E siccome, oltre al possesso delle terre, il Vescovo riconosce alla comunità anche l’esercizio di una sia pur limitata giurisdizione penale e civile (bandum et districtum), a buona ragione questa concessione enfiteutica viene considerata il vero e proprio atto costitutivo del comune rurale centopievese.
Anche se, a dire il vero, l’esistenza di un comunità rurale nel centopievese si poteva desumere già da un documento di data sia pur di poco antecedente, e cioè dall’atto di concessione enfiteutica del 4 ottobre 1170, con il quale lo stesso Vescovo bolognese Giovanni aveva ceduto ai persicetani il possesso delle terre di Villa Gotica e Morafosca, il cui confine orientale viene indicato in una Curte de Cento et de Argele.
Le terre oggetto di queste prime concessioni enfiteutiche del sec. XII, rinnovate periodicamente dal vescovo nel secolo successivo a favore dei centopievesi e dei persicetani, sono ancora pressoché esclusivamente vallive, paludose e boschive e, come già detto, periodicamente devastate dalle esondazioni del Reno e del Samoggia.
Ancora in un atto di poco successivo dell’a. 1209, infatti, il Vescovo di Bologna Gerardo Riosti concede ai centopievesi espressamente lo jus piscandi in totam vallem posita in Curte de Cento e riserva per sé la decima della metà del legname ricavato dal bosco tempore incisionis.
Non vanta cioè alcuna pretesa per decime dovute dalla coltivazione agricola di terre arative, che evidentemente non ha luogo, o è del tutto marginale nel contesto di una economia di tipo ancora prevalentemente silvo-pastorale, fondata più sulla pastorizia che sulla agricoltura e sullo sfruttamento dell’incolto del bosco e della valle.
Sicché in origine i nuclei embrionali delle due comunità limitrofe, più che da coloni agricoltori, era composto da pastori, conciatori, boscaioli, legnaioli, cacciatori, pescatori, allevatori di gamberi e barcaioli..
In quegli antichi tempi le strade sterrate e i sentieri che attraversavano quelle terre erano praticabili soltanto per alcuni mesi d’estate, a causa delle frequenti esondazioni dei due fiumi, sicché le persone e le merci viaggiavano principalmente per via fluviale, su zattere rudimentali o barche a chiglia piatta, che scendevano lungo i canali e le numerose fosse navigatorie poco profonde, sospinte da pertiche.
I preziosi documenti altomedievali conservati nell’Archivio Storico del Monastero di Nonantola contengono numerosi riferimenti a porti fluviali o a semplici attracchi per imbarcazioni situati nel Pagus Perseceta nei punti di convergenza dei canali e delle fosse navigatorie.
Sicché è lecito supporre che la zona fosse il centro nevralgico di un complesso sistema di navigazione interna organizzato dal Monastero per stabilire un collegamento fluviale tra i suoi domini.
Una navigazione “minore” collegata però a quella che, lungo le più importanti arterie fluviali del Panaro e del Reno, raggiungeva il Po e, quindi le valli lagunari adriatiche, attraverso la quale si svolgevano i traffici commerciali tra Modena, Bologna e Ferrara, e con la stessa Venezia.
Il Reno e il Samoggia, tuttavia, non erano protagonisti soltanto di devastazioni ma, con il lento e costante deposito delle loro torbide, stavano beneficiando queste terre incolte di una continua opera di colmata la quale, nel corso di lunghi anni, grazie anche agli interventi bonificatori delle due comunità rurali, farà emergere e favorirà il recupero dall’incolto del bosco e della valle, prima di estesi prati e pascoli e poi di sempre più ampie distese di terre arative, le quali andranno a costituire il consistente patrimonio fondiario delle rispettive Partecipanze agrarie.
(segue)