Nella mattinata odierna, i Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Portomaggiore (FE) e quelli del Gruppo Tutela Lavoro di Venezia e Ferrara, coadiuvati dai colleghi del Nucleo Investigativo di Ferrara e da personale civile dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ferrara, hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 2 cittadini pachistani, domiciliati nell’Argentano, indagati dalla locale Autorità Giudiziaria – in concorso tra loro – per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravata dalla minaccia e dalla violenza c.d. “Caporalato” (art. 603 bis codice penale). Nel contesto, è stato eseguito altresì un sequestro preventivo di beni per equivalente del valore di circa 100.000 euro, vincolando sia le somme giacenti su conti correnti bancari, utilizzati da uno degli indagati e da 5 società a lui riconducibili per movimentare i proventi dell’attività illecita, sia un appartamento, intestato alla moglie di uno degli indagati, sito a Portomaggiore (FE), destinato ad ospitare i lavoratori in precarie condizioni igienico-sanitarie.
Le indagini, che hanno condotto agli arresti di oggi, scaturiscono da una precedente attività investigativa, conclusasi nell’aprile 2022, che aveva portato all’arresto di altri 3 cittadini pachistani, domiciliati nel Portuense, per analoghi fatti, posto in essere da un sodalizio criminale concorrente.
Agli odierni arrestati viene contestato il reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla (perlopiù tramite la mediazione di società agli stessi riconducibili ed appositamente costituite) al lavoro presso aziende agricole terze, talvolta compiacenti, in condizioni di sfruttamento ed approfittando del stato di bisogno dei lavoratori, adottando altresì sistematiche condotte di violenza e minaccia nei confronti di numerosi di essi. Le complesse e prolungate indagini, hanno permesso di documentare il reclutamento illecito di oltre 80 lavoratori, impiegati in più circostanze in diverse aziende agricole della zona e del ravennate.
Tra gli arrestati, il primo A.Z. 57 enne pachistano – riconosciuto dalle sue vittime come il “capo” – è stato tradotto in carcere, mentre l’altro I.F. 34 enne pachistano – con mansioni logistiche e contabili – individuato come “segretario” è stato collocato agli arresti domiciliari. I due, agendo in concorso tra loro, sono sospettati di essere i fornitori di manodopera (costituita talvolta da soggetti in condizioni di clandestinità e, spesso, impiegata senza contratto) sulla base delle richieste di vari imprenditori agricoli. In particolare, agli indagati viene contestata:
- la reiterata retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi, riconoscendo – di fatto – al lavoratore, a fronte di 10/14 ore di lavoro giornaliere, uno stipendio di 5 euro/ora in luogo di una spettanza pari a circa il doppio, la cui differenza veniva incamerata dagli arrestati, che quindi trattenevano per sé circa 5 euro/ora per ogni lavoratore;
- la reiterata violazione della normativa di settore (orario di lavoro, niente riposo settimanale, nessuna aspettativa né ferie, nessuna visite mediche, formazione sulla sicurezza, fornitura dei dispositivi individuali di sicurezza, etc.). I reclutati lavoravano 7 giorni su 7, anche 16 ore al giorno con 10 minuti di pausa pranzo, senza possibilità di fare soste, neanche per bere;
- di avvalersi di mezzi di intimidazione, quali le percosse (sia fuori che sui luoghi di lavoro), la minaccia ai lavoratori di non essere più chiamati a lavorare, il trattenimento dell’intero salario giornaliero dei lavoratori ritenuti indisciplinati, la minaccia di ogni forma di ritorsione o l’uso della violenza fisica nei confronti di coloro che paventavano l’intenzione di denunciare i fatti ai Carabinieri. In più occasioni i lavoratori “meno efficienti” venivano sanzionati con pene corporali (schiaffi, bastonate) ovvero veniva trattenuta parte del compenso loro dovuto. Venivano sanzionate con aggressioni fisiche percosse, lesioni e minacce le mancanze più gravi quali rivolgersi alle forze dell’ordine o solo paventarlo, oppure interloquire direttamente col datore di lavoro (assolutamente vietato).
Al fine di garantirsi il pieno controllo sui connazionali, gli indagati mantenevano, in via esclusiva, i rapporti con gli imprenditori agricoli, presso cui i lavoratori venivano impiegati prevalentemente “in nero”. Nei rari casi in cui venivano formalizzati i contratti di lavoro (con l’intermediazione delle società riconducibili agli indagati) e le spettanze quindi versate mediante bonifico, una parte della somma (pari a 5/6 euro per ogni ora di lavoro) veniva riconsegnata in contanti dalle vittime ai “caporali”. Quando, invece, il pagamento avveniva totalmente “in nero”, l’imprenditore da un lato effettuava direttamente il versamento al lavoratore, e dall’altro consegnava ai “caporali” la quota per la loro mediazione, la quale erodeva, anche in questo caso, quasi la metà del trattamento economico dei lavoratori.
Gli approfondimenti investigativi, articolati su mesi di osservazioni, pedinamenti, escussioni ed attività tecniche, hanno documentato come la condotta si sia protratta dal 2018, senza soluzione di continuità, sino ad oggi. E’ stato dimostrato che il reclutamento e l’impiego dei lavoratori ad opera degli arrestati non avveniva occasionalmente, bensì sfruttando un modello ben strutturato, che prevedeva l’impiego di mezzi per il trasporto dei lavoratori nei campi e la cura di tutti gli aspetti tecnico-pratici del lavoro. Gli stessi indagati provvedevano altresì a dare vitto ed alloggio ai connazionali sfruttati, utilizzando abitazioni (una è quella sottoposta a sequestro preventivo) o capannoni industriali dismessi, in cui venivano stipate decine di persone in condizioni disumane (materassi a terra, 40/50 persone con un solo bagno etc.), sistemazione alloggiativa per la quale erano obbligati a corrispondere un canone di locazione variabile tra i 120 e i 150 euro al mese, oltre al vitto per il quale era richiesto un importo di 95/100 euro ciascuno, il cui importo complessivo veniva trattenuto direttamente dallo stipendio.
Il sistema, ormai rodato, si reggeva sullo sfruttamento dello stato bisogno dei lavoratori, che necessitavano di denaro da inviare in patria, alle famiglie bisognose o a famigliari ammalati, nonché sulla imprescindibile sottomissione degli stessi, perlopiù sprovvisti di cultura e conoscenza della lingua italiana, anche col quotidiano ricorso ad ogni genere di intimidazione, vessazioni a cui si associavano la costante violazione della normativa sulla sicurezza e l’elisione dei diritti dei lavoratori. Così come è emerso il sistematico “indottrinamento” dei lavoratori sfruttati, sulla versione da fornire in occasione delle eventuali verifiche da parte degli ispettori del lavoro, che comprendevano giorni di riposo, ferie, straordinari etc., tutti benefici ovviamente a loro non concessi. Inoltre venivano date precise disposizioni che, in caso di incidente sul luogo di lavoro, l’operaio doveva essere portato al Pronto Soccorso, ove non doveva riferire le reali modalità con cui si era ferito.
Nel contesto sopra riportato va evidenziato come, a seguito delle novelle normative degli ultimi anni, la pena prevista per lo sfruttamento della manodopera – nella contestata ipotesi aggravata da violenza e minaccia – raggiunga un massimo edittale di 8 anni di reclusione, ed altresì come il reato preveda la punibilità non solo per chi recluta, ma anche per l’impresa agricola che impiega la manodopera irregolare.